Le fanfic di X-Files
Scelte al bivio
Camminando furtivi tra le pieghe degli episodi della settima stagione... seguendo gli indizi che Chris ha abilmente sparso qui e là... cambiando qualcosa... scegliendo noi il seguito... Una fanfiction con un finale aperto, la scelta spetta al lettore.Pubblicata il: 01/10/2009
Rating: NC-17, vietata ai minori di 17 anni
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Sommario: Camminando furtivi tra le pieghe degli episodi della settima stagione... seguendo gli indizi che Chris ha abilmente sparso qui e là... cambiando qualcosa... scegliendo noi il seguito... Una fanfiction con un finale aperto, la scelta spetta al lettore.
Note sulla fanfic: La fanfiction si colloca durante la stagione 7, ma abbraccia anche un pezzo della stagione 8. Contiene descrizioni di carattere erotico.
Archiviazione: Do il permesso di pubblicare la mia fanfiction su altri siti, ma vi sarei grata se prima me ne deste comunicazione, grazie.
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Washington D.C.
Brusio.
Tutto quello che ero in grado di percepire era un’incessante e penetrante brusio.
Quell’assordante sussurro di pensieri, che volavano come sciami d’api impazziti, mi stavano facendo scoppiare la testa.
Abbassai il capo sulle mani. Le unghie lanciavano una muta protesta mentre le torturavo nell’estenuante e ansiosa attesa di ricevere il responso.
Le gambe mi tremavano nervosamente e il piede batteva sul pavimento, di un bianco asettico, con un ticchettio ritmico e fastidioso.
Mi guardai intorno, respirando profondamente per cercare di calmare il mio stato d’ansia.
Le copertine dei giornali, appoggiati al tavolino, ritraevano tutti donne dallo sguardo radioso, che osservavano le proprie mani poggiate, in atteggiamento protettivo, sul ventre gonfio. I loro occhi erano luminosi e vivi, e il loro sorriso era sincero ed estasiato.
Erano bellissime.
Le loro immagini bruciavano come acido nel mio cuore.
Un cuore che aveva smesso di sperare, di credere ad un’utopia, da molto tempo ormai. E che ora, invece, si ritrovava a battere fiducioso al ritmo di un’illusione, di una lusinga… di un miracolo.
La porta dello studio si aprì e il dottor Parenti, un ginecologo specializzato nella cura dell’infertilità, si avvicinò, con passo veloce, a me.
Mi alzai in piedi e sentii le gambe cedere sotto il mio peso. Il fardello d’ansia che mi portavo appresso da svariate ore cominciava a riflettersi con crudeltà sul mio corpo.
“Signorina Scully, ottime notizie!” esordì festosamente il medico. “Ho esaminato le uova e ho chiesto anche un consulto ad un paio di colleghi. Concordiamo tutti che, procedendo col giusto approccio, ci sono ottime speranze”.
Il mio cuore mancò un battito e poi riprese ad urtare con forza contro le costole.
Avevo sentito giusto?
Un inebriante senso di serenità e leggerezza mi invase l’anima, insinuandosi sotto la pelle e provocandomi una sensazione di benessere e sollievo tali da togliere alle gambe la poca forza che le faceva reggere in piedi.
Mi sedetti di nuovo sulla poltrona della sala d’aspetto, mentre il dottore pronunciava le parole che, più di tutte, avevo desiderato ascoltare negli ultimi anni.
“Potrà concepire un figlio”.
Respirai due o tre volte profondamente, esalando l’aria satura di tensione che mi opprimeva i polmoni.
“Non sa la gioia che mi da” dissi, con voce stanca ma rincuorata, al dottor Parenti.
“Ovviamente…” si premurò di farmi sapere “… non posso garantire il risultato, ma prima interveniamo, meglio sarà”.
Detti qualche istante al mio corpo, perché assimilasse le parole del ginecologo.
Mi imposi di calmarmi, di ripetermi che non c’era nulla di certo e che avrei dovuto avere maggior autocontrollo, ma la bolla di felicità che mi aveva racchiusa in sé, pochi istanti prima, non cedette e mi ritrovai ad alzare il viso verso Parenti, con sguardo fiducioso e leggermente implorante.
“Si può anche subito?”.
Parenti mi guardò con espressione comprensiva, leggermente compassionevole.
L’espressione con cui si guarda un bambino che ti ha appena chiesto di ridargli il suo cagnolino, morto da pochi giorni.
“C’è bisogno di un padre, s’intende” precisò, come se ce ne fosse bisogno…
“Le ordino la mappa cromosomica alla banca del seme, per individuare un donatore compatibile”.
La mia testa, di volontà propria, si mosse leggermente, in un gesto di diniego.
“Sempre che non abbia già in mente un candidato!” aggiunse Parenti, con una piccola inflessione ilare nella voce.
Mulder…
Mulder…
Mulder…
Il suo nome prese a rimbalzare ininterrottamente sulle pareti della mia testa.
Non era un donatore anonimo, senza viso, senza voce, senza sentimenti che volevo come padre biologico del mio bambino.
Volevo una persona che conoscevo bene, che mi era stata vicina per anni nella gioia e nel dolore, che mi parlava con gli occhi e mi stringeva la mano quando avevo bisogno di sostegno. Volevo un uomo di cui conoscevo ogni modulazione della voce, di cui individuavo il profumo prima ancora che entrasse nella stanza, del quale conoscevo forza e debolezze. A cui sapevo leggere nell’animo senza che mi parlasse.
Io volevo che fosse Mulder.
Nel momento in cui il suo nome arrivò, imperioso, ad occuparmi i pensieri, capii che avevo sempre voluto – sempre sperato – in cuor mio che, in un modo o nell’altro, lui diventasse parte inscindibile della mia vita. Per sempre.
Non era un capriccio. Era una necessità.
Sentivo il bisogno che fosse lui a condividere questa esperienza, insperata e prodigiosa, con me. Era una necessità vitale tanto quanto l’aria che respiravo.
Capii che, se non fosse stato possibile avere lui come donatore, quel miracolo, così personale, avrebbe avuto un significato diverso. Sarebbe stato il coronamento di un sogno inseguito per anni, ma la felicità e il senso di vittoria sarebbero stati menomati di una parte importante. Sarebbero parsi incompleti.
Il mio cuore prese a battere un ritmo agitato, ansioso, mentre mi rendevo conto che di questo lui non sapeva nulla. Che avrei dovuto trovare la forza e il coraggio di parlargliene.
“Si… si…” risposi, infine, al dottor Parenti “E’ come chiederglielo il problema…”.
Fuori dal palazzo, il mondo scorreva inesorabile e insensibile al mio tormento.
Istintivamente, mi sfiorai la base della schiena, dove un tatuaggio, fattomi realizzare in un momento di sconforto e ribellione, attestava, tramite la simbologia del serpente che si morde la coda, il ciclo continuo di quel miracolo chiamato vita.
Guardando fuori dalla finestra mi resi conto di come tutto può essere estremamente piccolo o, al contrario, estremamente grande a seconda della prospettiva da cui lo si guarda.
Ero rientrata dalla studio ginecologico un paio d’ore prima e da allora ero rimasta incollata a questo vetro, a guardare il cielo imbrunire e la vita scorrere.
Nel mio cuore albergava una profonda e inaspettata felicità, ma doveva condividere lo spazio con un’altrettanto profondo tormento, che mi chiudeva lo stomaco e mi faceva sudare i palmi delle mani.
Non riuscivo a trovare un briciolo di coraggio per presentarmi davanti a Mulder e chiedergli di essere il mio donatore, il padre biologico del mio bambino.
Insieme ne avevamo passate veramente tante.
Avevamo condiviso dolori, gioie, risate. Ci eravamo stretti nella nostra comune amicizia quando decisioni inaspettate o notizie dure da accettare erano piombate mestamente nelle nostre vite.
Eravamo l’uno per l’altra come un punto di riferimento, un isola tranquilla in cui rifugiarsi quando il mare è in tempesta, una luce brillante che ci guida sicura lungo sentieri bui e insidiosi.
Se c’era una cosa in cui potevo contare, senza dubbi, senza incertezze, era il fatto che Mulder sarebbe corso da me ogni volta avessi avuto bisogno del suo aiuto. Avrebbe messo a repentaglio la sua stessa vita per proteggere la mia. E lo stesso valeva per me.
Ma chiedergli questo… era tutt’altro paio di maniche.
I rumori esterni, le voci, i rombi dei motori, i colpi di clacson arrivavano attutiti alle mie orecchie, ma testimoniavano in maniera inequivocabile che, là sotto, scorreva la vita.
La fila di auto che si snodava lungo la strada creava un gioco di luci e colori grazie ai fanali e agli stop posteriori.
Mi ritrovai a sorridere, perché mi venne in mente un vecchio passatempo che io e mia sorella Melissa usavamo adottare, da bambine, per sconfiggere la paura e affrontare a viso aperto e con coraggio gli scherzi, atti a spaventarci a morte, ideati dai nostri dispettosi fratelli.
Guardavamo le auto passare a fari accesi e immaginavamo fossero terribili mostri dagli occhi luminosi, che ci guardavano con un ghigno inquietante e che ci promettevano ore e ore insonni, ad aspettarli sbucare dal nulla, nella nostra buia cameretta.
Ci prendevamo per mano e, seppur tremando terrorizzate, non indietreggiavamo davanti a quei mostri immaginari, ma ugualmente paurosi.
Come si è ingenui da bambini.
Ci si lascia spaventare da due semplici fanali, da un armadio scricchiolante o da una parola che di terrificante non ha nulla, come Babau, e non si comprende che i veri incubi, i veri mostri, abitano nella realtà, nella luce e nella vita. Proprio dove si è convinti di essere al sicuro.
Com’era bello essere così ingenui.
Credere che durante il giorno, circondati dall’amore della propria famiglia, nulla di male ti possa capitare.
Io e i miei fratelli siamo stati dei bambini fortunati. Abbiamo vissuto una realtà luminosa e sicura, protetti sempre e comunque.
Mulder non aveva avuto la stessa opportunità di vivere un’infanzia serena…
Mi soffermai a guardare una famiglia che passeggiava tranquilla all’altro lato della strada.
La donna teneva per mano una bimba dai boccoli scuri, che saltellava irrequieta tirando il braccio della madre, mentre l’uomo portava sulle spalle un bimbo più piccolo, che si guardava attorno con sguardo curioso e trasognato.
Una mano si posò sul mio ventre desolatamente vuoto.
Avrei mai potuto assaporare la dolcezza di un momento così semplice e quotidiano, ma allo stesso tempo così perfetto?
Immaginai di essere io quella donna e di tenere tra le braccia un corpicino morbido e profumato. Immaginai di baciare quella pelle liscia, innocente… e sentii un languido brivido ghermirmi lo stomaco.
Chiusi gli occhi, la mano ancora poggiata sul ventre.
Una famiglia.
Una famiglia mia.
L’immagine che il cervello trasmise al mio nervo ottico, mi ritraeva sorridente e felice, intenta a guardare il volto di un bambino dallo sguardo sveglio e furbo. Due occhi verdi mi osservavano intensamente e le labbra piene e morbide si schiudevano in un sorriso dolce, dedicato a me.
Era un bambino bellissimo. Un bambino che assomigliava incredibilmente a Mulder.
Riaprii gli occhi.
La famiglia di prima era scomparsa dietro l’angolo.
Chiusi le tende, presi le chiavi dell’auto e mi diressi fuori, spinta da una determinazione che avevo cercato per tutta la sera e che ora mi scuoteva i nervi e mi spingeva a correre verso la mia meta.
Un dono che non avevo intenzione di lasciarmi sfuggire.
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Fissai per qualche istante il numero 42 sul legno scuro della porta di casa di Mulder.
Poi trassi un profondo respiro e bussai.
Sentii un lieve suono tintinnante di posate che vengono abbandonate su un piatto, un rumore di passi e la serratura che veniva aperta.
“Scully!” esclamò sorpreso, vedendomi.
“Ciao…” risposi in tono poco convinto e con un filo di voce.
Vidi brillare negli occhi di Mulder la curiosità. Sicuramente aveva notato nel mio sguardo tutto il tormento e l’indecisione che mi scorrevano veloci sotto i nervi tesi.
Indossava un paio di logori pantaloni blu di una tuta che doveva aver vissuto tempi migliori, un paio di ciabatte e una maglietta a maniche corte grigia, che segnava i contorni dei muscoli del petto e delle braccia.
Si scostò leggermente per permettermi di entrare.
Notai che sul tavolino, di fronte al divano, c’era un piatto semivuoto, le posate erano incrociate sul bordo, una bottiglia d’acqua torreggiava su un bicchiere di vetro pieno e una mela attendeva d’essere morsa, vicino al tovagliolo.
La tv era accesa e, dai suoni, dedussi che stessero trasmettendo un film western.
“Stavo cenando” mi informò, mentre chiudeva la porta e si voltava verso di me.
“Non voglio disturbarti. Mi trattengo per poco”.
“Non intendevo questo” disse scuotendo la testa, “Volevo chiederti se ti andava di mangiare qualcosa”.
Scossi la testa.
“No, ti ringrazio. Vado davvero via subito” esitai per un attimo. L’avvicinarsi del momento che tanto temevo stava facendo a pezzi la determinazione che mi aveva condotta fino a lui.
“Volevo solo… parlarti di una cosa” dissi tutto d’un fiato, guardandolo.
Lui mi fissò attentamente, nel suo sguardo una sincera curiosità e un velo di preoccupazione.
Ma poi sorrise.
“Va bene che non sono un grande chef, ma non avevo intenzione di avvelenarti!”. Continuò a sorridere, sperando di contagiarmi col suo umorismo.
Piegai leggermente gli angoli della bocca, solo per rassicurarlo, ma più di questo non fui in grado di fare.
Un macigno formato da tensione, imbarazzo e un filo di paura mi pesava fastidiosamente sul petto.
Vidi il sorriso di Mulder spegnersi e le sopracciglia contrarsi.
“Scully… va tutto bene? Vuoi sederti?”. Mi poggiò una mano sul gomito, con l’intento di dirigermi verso il divano, ma io scossi la testa.
“No. Va bene così” presi un respiro. “Va tutto bene” aggiunsi vedendo che stava per parlare, “E’ solo che… non è semplice”.
Abbassai il capo e mi premetti pollice e indice alla base del naso.
La tentazione di scappare via era allettante, ma mi imposi di farmi forza, di restare, anche solo per riconoscenza verso quella determinazione, ormai perduta, che mi aveva spinta ad arrivare davanti al mio obbiettivo.
“Scully…” sentii la mano di Mulder poggiarsi sotto il mio mento e fare una leggera pressione per sollevarmi il viso.
“Lo sai che puoi dirmi tutto…”. Cercava di rassicurarmi e per un infinito momento mi persi nel verde dei suoi occhi indagatori.
Feci una risata debole e forzata.
“Questo va oltre ogni cosa io ti abbia mai detto o chiesto…per questo è così difficile…”, la voce mi usciva lenta e insicura.
“Ti ascolto”. Nelle sue parole c’era così tanta passione, così tanto calore, che ritrovai un po’ di forza e lo fissai negli occhi, chiedendogli quasi scusa con lo sguardo per quello che gli stavo per domandare.
“Oggi pomeriggio” iniziai, “sono stata da un ginecologo, un medico specializzato nella fecondazione in vitro, per sottoporgli le mie uova…”.
Vidi gli occhi di Mulder aprirsi leggermente, interessati, e il suo corpo tendersi ansioso alle mie parole.
“Dice che sono ancora abbastanza vitali e che, con un’adeguata terapia, ho delle buone speranze di poter concepire un figlio”.
Il suo viso si illuminò di un sincero e dolce sorriso, che gli dette un’aria tenera e bellissima, e i suoi occhi brillarono, felici.
Era felice per me.
La mia infertilità aveva causato sofferenza anche in lui, non direttamente, ma come riflesso del mio dolore e del mio considerarmi donna solo a metà.
“Ma è meraviglioso!” esclamò, sinceramente partecipe alla felicità che si celava dietro la notizia.
Io non replicai, né sorrisi in risposta al suo entusiasmo.
Ero troppo concentrata. La parte peggiore arrivava ora…
“Il dottor Parenti, il ginecologo“ proseguii, imponendomi di non abbassare lo sguardo, “… voleva farmi consultare la mappa cromosomica dei donatori di seme compatibili, ma…”.
Mi bloccai. E mi detti della stupida per non avere il coraggio di terminare una semplice frase.
“Ma…?” mi esortò dopo un po’.
Trassi un respiro profondo, percependo i battiti impazziti del mio cuore echeggiare tra le costole. Non riuscii a guardarlo negli occhi e abbassai la testa, contemplandomi le scarpe.
“Ma… io avevo in mente di chiedere di fare da donatore ad una persona…” la voce si affievolì verso la fine della frase.
La televisione accesa continuava a riempire la stanza di voci e sparatorie, ma io sentii chiaramente calare un pesante e scioccato silenzio tra di noi.
Come se l’atmosfera si fosse congelata.
La tensione era palpabile.
Alzai lentamente lo sguardo su di lui.
Mi stava guardando immobile, sul viso un’espressione quasi buffa. Era al contempo stupito ed estremamente serio.
“Io…” ricominciai balbettando, “… non ti chiedo di darmi subito una risposta”. Non sapevo più come guardarlo, mi sentivo piccola come una formica, al suo cospetto…
“Anche se mi rendo conto che è molto, ti chiedo solo di pensarci…”.
Lo fissai per un altro paio di secondi, per assicurarmi che mi avesse sentito, poi cedetti al peso della vergogna e mi affrettai ad appoggiare la mano alla maniglia della porta.
Con la coda dell’occhio lo vidi assentire impercettibilmente alle mie parole.
“Va bene…allora… ciao…” dissi, mentre aprivo la porta e mi precipitavo in corridoio.
Prima di chiudermi l’uscio alle spalle lo sentii sussurrare un debole saluto.
Mi incamminai a passo svelto, con il cuore in tumulto, il respiro affannoso, e un imbarazzo che minacciava di farmi piangere, verso l’ascensore.
Davanti agli occhi avevo ancora l’immagine di Mulder. Impietrito e scioccato.
Bellefleur, Oregon
Quei ricordi…
Sembravano immagini e sensazioni così lontane. E invece erano passati pochi mesi da allora. Ma, fino ad oggi, erano successi tanti di quegli avvenimenti – alcuni dolorosi, alcuni meravigliosi, altri semplicemente giusti – da far apparire quelle memorie lontane nel tempo.
Ma non nel cuore.
La mia immagine riflessa allo specchio, in quella spartana camera di motel a Bellefleur, raccontava emozioni che tentavo di tenere a bada ogni giorno, ma che, inevitabilmente, tornavano a galla.
L’aver tenuto sulle ginocchia, poche ore prima, il figlio di Teresa Nemman aveva riaperto una ferita mai rimarginata nella mia anima, anche se avevo cercato di curarla con tutte le mie forze.
E con l’aiuto di Mulder.
Avevo visto come mi aveva guardata, mentre facevo giocare il bambino con la paperella. Aveva un’espressione dolce, come se stesse osservando una scena tenera e commovente, ma allo stesso tempo avevo notato del dolore. Perché sapeva che cosa significava per me stringere un bimbo tra le braccia, sapeva che avrei sofferto.
E non si sbagliava.
Tenevo le labbra serrate, intenta a trattenere il fiume di lacrime che avevo faticosamente relegato dietro la diga dell’oblio, e che ora minacciava seriamente di travalicare.
L’acqua calda che si stava riversando nella vasca aveva reso il piccolo ambiente saturo di vapore, impedendo alla mia immagine di riflettersi nello specchio.
Passai una mano sul vetro, per togliere la condensa.
Non appena i miei occhi incrociarono il mio riflesso, una fitta lancinante si propagò nel mio stomaco e una forte ondata di nausea si diramò lungo tutto il mio corpo, indebolendomi e provocandomi una sgradevole sudorazione fredda sulla pelle.
Vidi il mio viso perdere rapidamente colore e mi aggrappai forte al bordo del lavandino, respirando profondamente. Il cuore accelerò i battiti.
La testa iniziò a girare vorticosamente e le gambe cedettero.
Mi accasciai a terra, sopra il tappetino del bagno, tenendomi il ventre con entrambe le mani. La nausea si faceva sempre più forte e temetti di non riuscire ad arrivare al wc per svuotarmi lo stomaco.
Ma come arrivò, l’ondata di malessere passò improvvisamente, lasciandomi esausta e tremante, seduta sul pavimento.
I brividi che mi scuotevano il corpo aumentarono d’intensità.
Mi sdraiai e mi portai le ginocchia al mento, circondandole con le braccia.
Mi sentivo così male da non avere nemmeno la forza di allungarmi a prendere un asciugamano, in caso la nausea fosse ritornata.
Non so per quanto rimasi stesa sopra quell’orrendo tappetino, sdraiata in posizione fetale, so solo che, dopo un tempo che mi parve infinito, i brividi si fecero meno frequenti, consentendomi di provare ad alzarmi.
Mi sentivo addosso una sgradevole sensazione di freddo e solitudine.
Con attenzione, mi aiutai a tirarmi in piedi aggrappandomi al bordo della vasca.
La nausea fece nuovamente capolino, ma fu un’ondata meno potente rispetto alla precedente e la tenni sotto controllo.
Mi sciacquai il viso nella vasca, poi chiusi il rubinetto.
Controllai il mio respiro e i battiti del cuore, tastandomi il polso.
Erano ancora piuttosto accelerati, ma mi sentivo abbastanza in forze per prendere la decisione di andare a bussare alla porta di Mulder.
Non fu una scelta prettamente legata alla paura di sentirmi nuovamente male, o di svenire, fu più una decisione legata alla sensazione di solitudine che provavo.
L’idea di vedere i suoi occhi scrutarmi apprensivi, di sentire la sua voce calmarmi e le sue mani lenire le mie pene, fu la spinta che mi fece bussare alla sua stanza.
“Si? Chi è?” lo sentii chiedere dall’interno.
Un’ondata di nausea mi travolse nuovamente.
“Io!” risposi in tono frettoloso, mentre arginavo la voglia di vomitare davanti alla sua porta.
I brividi mi scossero il corpo, mentre Mulder apriva la porta. Avevo tanto freddo.
Lui si accorse subito che qualcosa non andava.
“Che succede? Hai una faccia!”.
Mi strinsi nelle spalle.
“Mi sento uno schifo…”. Nessun altro termine avrebbe potuto riassumere così bene il modo in cui mi sentivo.
Mi prese un gomito e mi fece entrare in camera.
Mi sedetti sulla sponda del letto e, non appena lui si sistemò di fronte a me, cominciai a raccontargli cosa mi aveva portato da lui.
“Ero…” respirai per calmare i brividi, “Mi stavo spogliando per fare un bagno e m’è salita la nausea… con qualche vertigine…”.
Mulder annui comprensivo. Negli occhi quel lampo ansioso che mi faceva capire quanto lui si preoccupasse per me e per la mia salute.
Respirai a fondo.
“… e poi ho iniziato a tremare…”.
Mulder si alzò dalla sedia.
“Vuoi che chiami un medico?”.
Non volevo medici, mi bastava soltanto la sua presenza.
Lo vidi scostare il lenzuolo.
“No, forse…” e accettai, senza rifletterci troppo, il suo muto invito ad infilarmi sotto le calde coperte del suo letto, “… basta che mi scaldo un po’”.
Mi tolse le scarpe, mentre avanzavo carponi sopra il materasso.
Mi infilai sotto la trapunta, spostando il cumulo di fotografie del presunto rapimento alieno del marito di Teresa che Mulder stava esaminando prima che arrivassi io.
Lo sentii salire sul letto e sdraiarsi dietro di me, sopra le coperte.
Mi avvolse con un braccio e mi chiese se andava meglio.
I brividi continuavano a scuotermi e il senso di freddo era ancora ben presente, ma la sensazione di calore e protezione che mi trasmetteva il suo corpo, così vicino al mio, era talmente forte che mi ritrovai a rispondergli che stavo meglio.
E lo ringraziai, anche se dubito avrebbe mai potuto comprendere quanto fosse grande la mia gratitudine nei suoi confronti. E non solo per quella sera, ma per tutte le ore della sua vita che aveva speso standomi accanto ad alleviare le mie pene. Senza parlare, senza chiedere nulla in cambio, se non la mia fiducia. E quella era stata sua fin dal primo momento.
Il suo braccio attorno al mio corpo era un abbraccio che anelavo da tempo, il porto sicuro in cui rifugiarmi nei giorni di tempesta.
Sentivo il suo volto poggiato dolcemente ai miei capelli e il suo respiro caldo sfiorarmi la spalla, attraverso la sottile stoffa della camicetta.
I brividi mi scossero un’altra volta o due, ma poi il suo calore si trasmise al mio corpo e il freddo svanì, lasciandomi, però, debole ed indifesa.
Percepivo chiaramente i suoi splendidi e profondi occhi verdi scrutarmi con attenzione.
“Non ne vale la pena Scully”.
La sua voce mi prese in contropiede. Ma più che altro furono le parole a non trovare una collocazione sensata nel puzzle delle frasi che mi sarei aspettata di sentir pronunciare dalle sue labbra.
Che cosa significavano?
Attesi qualche istante, con il cuore in tumulto.
“Scusa?” chiesi, infine, quando mi resi conto che lui non aveva intenzione di proseguire.
“Devi tornartene a casa” disse semplicemente.
Feci una risatina.
Non potevo credere che il mio malessere l’avesse turbato al punto di dirmi di lasciarlo solo nel bel mezzo di un’indagine, che si stava rivelando incredibilmente interessante, soprattutto nella sua ricerca della verità.
“Mulder!” replicai con tono ragionevole, “Vedrai che passa in fretta…”.
Ma lui mi bloccò.
“E’ da un po’ che ci penso. Quando eravamo da Teresa… ti osservavo giocare col suo bambino”.
A quelle parole non potei fare altro che immobilizzarmi. Il dolore che avevo provato osservandomi davanti a quello specchio tornò vivo e prepotente ad opprimermi il petto.
“Il lavoro ti ha sciupato una parte della vita”.
Le sue parole erano come coltelli incandescenti che infierivano sadicamente dentro le mie ferite, ma, allo stesso tempo, mi facevano sentire ancora più legata a quell’uomo.
Nessuno mi aveva mai capita - o forse dovrei dire mai conosciuta - a fondo quanto era stato in grado di fare Mulder.
“La salute, la maternità, la gioia di allevare un figlio…” proseguì inesorabile.
Pensavo a quelle sofferenze pochi minuti prima e ora lui stava pronunciando ad alta voce pensieri che non avevo mai avuto il coraggio di ammettere con me stessa.
Forse per codardia, forse per paura.
“Forse hanno ragione loro” disse facendo breccia tra i miei pensieri.
“Chi è che ha ragione?” la mia voce era debole.
“Quelli dell’FBI”.
Aggrottai le sopracciglia, perplessa.
“Forse hanno centrato il punto” specificò, “Ma con motivi diversi. Sono i costi personali ad essere troppo alti”.
Aveva ragione. Aveva maledettamente ragione.
Quanto avevamo perso entrambi per via del lavoro?
Eppure eravamo andati avanti, avevamo continuato imperterriti per quel sentiero tortuoso che percorreva le nostre vite. Fianco a fianco.
Mi morsi le labbra. Il pianto che ero riuscita a trattenere poco prima, ora minacciava di rompere gli argini.
Ma non volevo.
Se avessi pianto Mulder si sarebbe sentito ancora più responsabile delle mie pene. Già sapevo che si accollava la colpa di gran parte delle mie sventure, e io questo non lo sopportavo.
La mia era stata una scelta, non mi aveva obbligata nessuno. Avevo scelto io di continuare il cammino al fianco di Mulder, di fare della sua crociata la mia vita.
Non era colpa del lavoro, né di Mulder.
Era un percorso che avevo deciso io di percorrere. Nessun altro aveva scelto per me. Se non il destino, se mai esisteva.
Sentii il suo alito caldo solleticarmi il collo.
“Devi trarre maggior profitto dalla tua esistenza”. La sua voce era un caldo sussurro che mi faceva vibrare i nervi e battere forte il cuore.
“Il mondo è un orizzonte sconfinato…”. Di nuovo quel caldo bisbiglio.
Perché le sue parole facevano così male?
Perché erano crudelmente oneste e veritiere, o perché temevo ciò che potevano implicare?
La sua mano mi accarezzò il viso con un tocco appena accennato. Un soffio di tenerezza che mi fece scendere una lacrima solitaria.
“Il gioco non vale la candela”.
E, dopo queste parole, sentii le sue labbra morbide posarsi delicatamente sulla mia guancia.
Mulder…
Non riuscii a dire nulla. Cosa avrei potuto rispondere?
L’unico gesto che fui in grado di regalargli fu stringere la sua mano e portarmela sulla guancia, a contatto con le mie labbra.
Le sue parole continuavano a ronzarmi in testa, mentre il suo respiro tranquillo mi accarezzava il viso.
Aveva parlato col cuore, mettendo da parte l’egoismo insito in ognuno di noi, pensando solo alla mia vita, al mio bene.
Nella sua voce c’era una verità così antica, così profonda, ma anche così dolorosa, che non riuscii a trattenere ancora le lacrime, che scesero, silenziose, a lasciare una scia umida sulle mie guance e un solco profondo nel mio cuore.
Mulder aveva ragione.
Ma l’idea di lasciarlo, di non lavorare più fianco a fianco, di non avere più legami con lui, mi faceva male, molto. Decisamente troppo.
Una goccia salata cadde sulla sua mano e lui si mosse piano dietro di me. Mi fece girare, in modo che fossi sdraiata sulla schiena.
Mi guardò con occhi dolci e si chinò su di me per darmi una serie di baci sussurrati lungo la scia delle mie lacrime, lavando le mie guance dal ricordo della sofferenza.
Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare nella dolce sensazione delle sue labbra morbide sulla pelle.
Lo sentii spostarsi verso il mio orecchio e posare un bacio delicato sul lobo, provocandomi un fremito, che non aveva nulla a che fare con i brividi di freddo che mi avevano scossa prima.
“Vuoi restare a dormire qui?” mi chiese in un sussurro.
Aprii gli occhi e lo guardai.
“Si” risposi senza pensarci troppo, e senza vergogna. “Grazie”.
Mi sorrise dolcemente, poi si alzò e si diresse alla valigia, aperta sul mobile della biancheria.
Prese una camicia bianca e me la tese.
“Tieni. Starai più comoda che vestita di tutto punto”.
Presi la camicia dalle sue mani, lo ringraziai con uno sguardo e, lentamente, mi alzai dal letto.
Lui si avvicinò con fare protettivo a me, pronto a sorreggermi in caso il movimento mi avesse fatto girare nuovamente la testa.
Ma non successe nulla. Mi sentivo solamente stanca.
Andai in bagno, mi spogliai e mi infilai la sua camicia.
Sapeva di bucato pulito, di aria aperta, e di Mulder. Averla addosso mi faceva sentire più che mai al sicuro. A casa.
Evitai accuratamente di incrociare la mia immagine allo specchio nel tempo che trascorsi in bagno, avevo troppa paura di leggere nei miei occhi il dolore e la sofferenza che, in quella serata così strana, avevano deciso di prendere possesso di me e non ne volevano sapere di lasciarmi andare.
Quando uscii trovai Mulder seduto sul letto a testa bassa, che mi aspettava.
“Tutto bene?” mi chiese sollevando lo sguardo su di me.
Dovevo avere un aspetto particolarmente sciupato, perché vidi i suoi occhi incupirsi e le sue labbra tendersi preoccupate.
Ma gli sorrisi spontaneamente, assicurandogli che mi sentivo meglio.
Mi infilai sotto le coperte, che erano diventate fredde senza la presenza dei nostri corpi. Mulder mi disse di non muovermi di lì, mentre spariva dentro il bagno.
Mi strinsi nelle spalle e piegai le ginocchia, cercando di scaldarmi, ma senza di lui non ci riuscivo.
Altri brividi arrivarono a scuotermi, ma non erano uguali a prima. Erano brividi di tensione, di ansia, di inquietudine.
Nella mia testa un turbine vorticoso di pensieri non mi permetteva di rilassarmi.
Immagini sconnesse accompagnavano parole, suoni e voci, in una spirale di ricordi e riflessioni che iniziavano in un punto, ma non trovavano un solido appiglio per terminare, per aggrapparsi ad una soluzione ben definita, ad una decisione sicura.
Abbracciai le mie ginocchia, sentendomi come una bambina lasciata sola ad affrontare le sue paure immaginarie. Dov’era mia sorella? Dov’erano i nostri gridolini timorosi, le nostre mani allacciate, le nostre forze unite? Dov’era la luce che mi avrebbe riportata al sicuro?
Trasalii quando sentii il letto abbassarsi sotto il peso di Mulder e l’aria fredda della stanza lambirmi le membra, mentre si sistemava sotto le coperte.
Si accorse del mio sussulto e, poggiandomi una mano sulla spalla, mi chiese se mi aveva spaventata.
Non gli risposi.
Mi girai verso di lui e mi strinsi contro il suo petto.
Le sue braccia mi circondarono immediatamente, stringendomi forte. Il suo viso si posò dolcemente sui miei capelli, accarezzandomi col suo respiro. Sentii le sue gambe nude intrecciarsi alle mie e il suo corpo muscoloso modellarsi contro le mie curve.
In un altro momento, in un’altra situazione, tutto questo avrebbe assunto dei risvolti sensuali che non saremmo stati né in grado di ignorare e nemmeno di bloccare, ma non era quello il frangente.
Nemmeno le immagini di quella notte vissuta a casa sua - sotto le sue coperte, avviluppata al suo corpo, amata come fossi la creatura più preziosa al mondo - furono risvegliate da quell’abbraccio.
Avevamo solo bisogno di stringerci l’uno all’altra, trasmettendoci il calore umano che ci era stato negato per molto – troppo - tempo.
Neanche una parola fu pronunciata, il linguaggio delle carezze e dei baci sulla fronte era più di quanto saremmo mai riusciti a manifestare con frasi e dialoghi.
Il suo calore si propagò rapidamente in ogni angolo del mio corpo spossato, zittendo i brividi e il senso di paura e solitudine. Mi accoccolai più stretta al suo petto aspirando a pieni polmoni il suo odore così familiare, percependo la peluria delle sue gambe solleticarmi la pelle, ascoltando il suono regolare dei suoi respiri.
Il suo petto si alzava e abbassava tranquillo sotto la mia testa, cullandomi dolcemente.
La realtà perse i suoi contorni nitidi e il regno dei sogni prese il sopravvento, annullando gli odori della stanza di motel e i monotoni rumori esterni.
Scivolai nel sonno, in un mondo onirico che mi voleva strappare alla sofferenza.
Tutto perse forma e definizione, niente era più uguale alla realtà, tranne una cosa.
Mulder venne con me.
FBI Headquarters
Washington D.C.
Non ci potevo credere.
Era pazzesco.
Poteva esserci un UFO nascosto nei boschi in Oregon… e noi non l’avevamo visto.
Quella giornata stava prendendo una piega decisamente strana, e la cosa non mi piaceva per nulla.
Già quella mattina io…
Sentii la porta dell’ufficio di Skinner chiudersi, mi voltai e vidi Mulder avanzare verso di me.
Mi avvicinai a lui, con le mani sui fianchi, ancora incredula.
“Mulder. Se questa storia è vera…” ma non mi fece terminare la frase.
“Vera o no, in Oregon non ci rimetti piede, Scully”.
Nel suo tono c’era una durezza che non mi aspettavo di trovare.
“Come sarebbe?” chiesi più perplessa che mai. Era la sua crociata, la sua ricerca, la sua vita, e l’aveva condivisa per sette anni con me. E ora non mi voleva con sé…
“Sarebbe che resti qui. Non devi venire, è troppo rischioso”.
Non comprendevo le sue parole.
Aggrottai le sopracciglia.
“Non afferro il punto” ammisi sinceramente.
Il suo viso era solcato da rughe di tensione e nel suo sguardo aleggiava un’espressione affranta che lo faceva apparire terribilmente vulnerabile.
“Prima o poi c’è una fine per tutto” cominciò a dire, “E quel momento è arrivato”.
Rimasi un attimo in silenzio.
I suoi discorsi di tre giorni fa, su quel letto, in quella camera di motel, echeggiarono minacciosi nei meandri della mia memoria.
“Ma, scusa…” provai a farlo ragionare. Come poteva credere che io volessi veramente lasciarlo per vivere la mia vita? Non aveva ancora capito che la mia vita era desolatamente vuota senza la sua passione, i suoi ragionamenti al limite del concepibile, senza le sue battute e senza la sua presenza?
“Hanno rastrellato tutte le vittime dei rapimenti” spiegò accalorandosi leggermente. “Saresti in pericolo e io… non voglio rischiare…” lo vidi esitare un momento e assumere un’espressione sofferente, “… di perderti”.
Mulder…
Era per quello?
Temeva mi potesse accadere qualcosa di brutto. Temeva che venissi rapita nuovamente, stavolta magari senza fare ritorno.
Temeva di non vedermi più.
E l’idea lo addolorava. Ce l’avevo scritto a chiare lettere in viso.
Mi avvicinai a lui, riflettendo.
Lui non voleva rischiare di perdermi, ma io non avevo nessuna intenzione di separarmi da lui.
In quel momento più che mai.
Lo abbracciai, stringendogli la nuca tra le dita. Lo sentii sospirare sulla mia spalla.
Un groppo in gola bloccava ogni mio tentativo di parlare, ma mi imposi di scioglierlo.
Forse la miracolosa e inaspettata notizia che avevo ricevuto quella mattina avrebbe potuto cambiare le cose, avrebbe potuto fargli cambiare idea.
O forse no.
Ma almeno dovevo provarci. Lui aveva il diritto di sapere.
“Mulder…” la mia voce era roca e indecisa, “… ti sbagli”.
Sentii la sua testa muoversi in un movimento di negazione.
“Prima o poi arriverà il momento di dire basta, ma non è oggi”. Cercai di mettere più enfasi possibile nelle mie parole.
Mulder si scostò dall’abbraccio e, tenendomi stretta per i fianchi, mi guardò negli occhi, con le sopracciglia aggrottate e un’espressione dura.
“Scully! Ma non capisci! Rischi di essere rapita!”.
Io scossi forte la testa. “Finché sono con te non rischio nulla”.
Lo vidi abbassare il capo, sbuffando caparbiamente.
Per un attimo ebbi la tentazione di tirargli un ceffone, per scuoterlo, per obbligarlo ad ascoltarmi, a leggere nei miei occhi quello che mi si annidava nel cuore.
“Mulder. Guardami!” gli ordinai in tono rude.
Lui alzò la testa e vidi nel suo sguardo la sofferenza e la stanchezza derivanti dalle sue paranoie e dalle sue paure.
“C’è una cosa… che non sai… e che potrebbe cambiare tutto”.
Avevo gettato l’amo e, come previsto, Mulder aveva abboccato.
Mi guardò perplesso, la testa leggermente piegata di lato. Le sue labbra si imbronciarono leggermente e le mani lasciarono i miei fianchi.
La stessa agitazione che mi aveva presa quella sera in cui era andata a casa sua, a chiedergli di fare da donatore per la mia inseminazione, tornò nuovamente a tendere i miei nervi.
Feci un respiro profondo e mi sedetti sulle poltroncine di pelle nera poste in corridoio.
Poggiai i gomiti alle ginocchia e tuffai il viso nelle mani.
Lo sentii sedersi in fianco a me.
“Scully…” il suo tono era quasi implorante, “Che succede?”.
Sospirai e incrociai le mani sulle gambe, voltandomi verso Mulder.
Continuai a ripetermi che aveva il diritto di sapere, era una notizia tanto mia quanto sua.
“L’altra sera ho avuto di nuovo quel fastidioso senso di nausea e vertigine che mi aveva colpita in Oregon”. Vidi i suoi occhi allarmarsi.
“Scul…” ma gli posai due dita sulle labbra per zittirlo.
Sotto i polpastrelli percepii il suo alito caldo e un brivido mi corse lungo le braccia.
“Così, ieri sono andata dal mio medico, per fare un controllo e questa mattina ho ritirato i risultati delle analisi, per questo sono arrivata tardi” soffocai una smorfia di stizza, ricordandomi di chi avevo trovato nell’ufficio al mio arrivo.
“Stai bene?” mi chiese Mulder, l’urgenza nella voce.
“Si Mulder, sto bene. Anzi direi che sto benissimo, solo…” trassi un respiro, “… solo che non riesco a comprendere”.
Lo fissai dritto negli occhi.
“Dalle analisi del sangue è risultato che…” feci una risatina incredula, “… che… sono incinta”.
Gli occhi di Mulder si sgranarono, preda dello stupore.
Io, invece, non riuscii a trattenere un sorriso, perché, seppur la cosa mi apparisse incredibile e assurda, la notizia mi aveva provocato un’ondata di gioia che non provavo da tempo, e il fatto di aver condiviso la notizia con Mulder la rendeva credibile, reale.
“Io, veramente, non so come…” mi interruppi, perché la commozione mi stava bloccando il respiro e le parole mi morirono in gola.
“Scully!” la voce di Mulder uscì emozionata, ma forte e chiara. “E’ una notizia… inaspettata, ma… splendida!”.
Annuii, mentre cercavo di trattenere le lacrime che premevano agli angoli degli occhi.
“Non so…”, presi un respiro, cercando di calmare i battiti del cuore, “Cioè… so com’è successo…”, lo guardai, mentre le lacrime iniziavano a scorrere lungo il viso, e feci una risatina imbarazzata, sentendo le guance accaldarsi, “… ma… non so comunque come sia potuto accadere!”.
Il sorriso che si dipinse sul volto di Mulder fu una delle immagini più belle e dolci che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Era sincero, estasiato, felice.
Si sporse verso di me e mi strinse in un abbraccio soffocante.
Mi aggrappai ai suoi fianchi, inzuppandogli la camicia di lacrime salate e cullandomi nella tenerezza di quel singolo e infinitesimale istante.
Mulder parlò dopo alcuni secondi.
“Scully… io non ho parole per dirti quello che sto sentendo in questo momento…”.
Mi scostò leggermente da lui per potermi guardare negli occhi, con un’intensità tale da sciogliermi.
“E’… mio? E’ stato quella notte…?” chiese, quasi timoroso.
Le lacrime sgorgarono impetuose e non seppi far altro che annuire, mentre sorridevo, incredibilmente felice.
I pollici di Mulder arrivarono ad asciugare le gocce che mi bagnavano le guance, i suoi occhi mi osservavano con calore, con devozione… con amore.
Mi faceva sentire preziosa, unica, incredibilmente adorata.
Le pupille di Mulder si dilatarono mentre il suo viso si avvicinava al mio, sempre più vicino, sempre di più. Il suo sguardo si posò sulle mie labbra che si schiusero attendendo il suo tocco.
“Mulder!”.
Sobbalzammo entrambi alla voce di Frohike che chiamava Mulder dalla porta dell’ufficio di Skinner.
Mi allontanai, imbarazzata, dalle sue braccia e mi voltai per asciugarmi le lacrime.
Sentii Mulder alzarsi. Quando mi voltai vidi Frohike con un’espressione che testimoniava il suo disagio di fronte alla scena alla quale stava per assistere.
“Mulder… ti stiamo aspettando…”.
Lui si voltò ad osservarmi. Gli rivolsi un sorriso rassicurante e gli feci cenno di andare.
Nel suo viso si leggeva una grande quantità di emozioni. Gioia, incredulità, indecisione, paura…
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi scosse la testa e si diresse verso l’ufficio.
Lo vidi sparire dietro la porta, assieme a Frohike.
Rimasi seduta su quelle poltroncine a tentare di calmarmi per un bel pezzo. Le lacrime continuavano a scendere e non ne volevano sapere di fermarsi.
Non mi aspettavo una reazione così entusiasta da parte di Mulder. Non volevo illudermi, ma credevo sarebbe stato felice per me, e basta. Invece nei suoi occhi avevo letto un sentimento che andava al di là di questo. Era emozionato e… orgoglioso.
Scossi la testa. Non volevo fare troppi voli con la fantasia.
Il bambino che miracolosamente portavo in grembo era figlio dell’unione di una notte, una notte splendida e inaspettata, che avevo trascorso con lui.
Era lui il padre, su questo non c’erano dubbi.
Ma non volevo obbligarlo a farsi carico di quel ruolo che gli spettava di diritto. Sarebbe stata una sua scelta. Per quanto mi facesse soffrire l’idea di negare un padre che aveva un volto e un nome a mio figlio, non me la sentivo di decidere io per entrambi.
Con l’inseminazione ero comunque pronta a prendermi questa responsabilità, ad allevare, a veder crescere mio figlio, da sola, senza aiuti. Cosa cambiava ora?
Feci una risatina amara.
Ora era cambiato tutto.
Il mio ventre era stato in seminato in modo naturale - anche se non mi capacitavo di questo miracolo - non come una mera e meccanica operazione medica, e questo, per quanto stupido fosse, cambiava completamente le cose.
Dall’interno dell’ufficio sentii arrivare la voce profonda e ovattata del vicedirettore.
Non sapevo se stessero organizzando un modo per scovare l’UFO - ammesso che fosse esistito sul serio - se Mulder avesse deciso di andare comunque da solo o no, se Kryceck era venuto nel nostro ufficio con l’intenzione di aiutarci o se era l’ennesima trappola, ma in quel momento non mi interessava.
Mi alzai e decisi di andarmene a casa.
Mulder avrebbe saputo dove trovarmi.
Georgetown
Andai ad aprire alla porta, con la certezza che fosse Mulder.
“Ciao” gli dissi appena entrò.
“Te ne sei andata…”. Non era un’accusa, era una semplice constatazione.
“Si… scusami. Non me la sentivo di rimanere al lavoro… non oggi…”.
Lo guardai e sotto i suoi occhi notai occhiaie profonde. Appariva molto stanco e provato. Le rughe marcate sulla fronte testimoniavano preoccupazioni e riflessioni e le sue labbra quasi imbronciate mi dicevano che non era ancora convinto del tutto delle conclusioni a cui era arrivato.
Inaspettatamente, mi prese per i fianchi e mi attirò a sé.
Mi strinse forte, talmente forte che per un attimo mi mancò il respiro.
Gli allacciai le braccia la collo e mi aggrappai alle sue spalle, percependo la ruvidezza della sua guancia a contatto con la mia.
Una sua mano si spostò sui miei capelli e mi strinse delicatamente la testa contro la sua spalla.
Respirai avidamente l’inebriante profumo della sua pelle e dei suoi capelli, e chiusi gli occhi.
Le sue mani mi accarezzarono la base della schiena e i capelli. Il suo petto si alzava e abbassava regolarmente sotto la mia testa.
Guardandomi dritta negli occhi, mi prese il viso tra le mani, avvicinandosi a me. Le sue labbra colmarono, senza esitazioni, la distanza che non ci era stato permesso ricoprire in quel deserto corridoio dell’FBI.
Le mie mani si intrecciarono ai suoi capelli, mentre le mie labbra si fondevano con le sue, muovendosi senza sosta, bramose.
La lingua di Mulder si aprì un varco nella mia bocca e cominciò a duellare e a sfregare contro la mia in un gioco passionale ed elettrizzante che mi provocò uno spasmo di piacere allo stomaco.
Il suo respiro era caldo, avvolgente e il suo sapore era forte, mascolino.
Mi aggrappai a lui, facendo aderire il mio corpo al suo, in un movimento erotico che gli fece salire un rauco gemito lungo la gola.
Il mio cervello smise di lavorare e si abbandonò alle sensazioni e alle emozioni che i nostri baci gli trasmettevano.
La mano di Mulder scivolò languida sul mio fondoschiena e io mi strinsi di più a lui, sfregando maliziosamente i miei fianchi contro il suo bacino.
Non mi stupii di riuscire a percepire la sua eccitazione attraverso la stoffa dei vestiti.
Mossi un passo indietro, trascinandolo con me.
Incespicando e ridacchiando, senza mai sciogliere l’abbraccio, scambiandoci rapidi baci e guardandoci con occhi elettrizzati, arrivammo in camera, dove il letto ci accolse, morbido e confortevole.
Mulder mi accarezzò i capelli e mi sorrise raggiante.
Gli tolsi la giacca del completo e gli sfilai la cravatta, slacciando i primi bottoni della camicia.
Ero preda di una frenesia che non comprendevo fino in fondo, ma non persi tempo a pensare, mi lasciai solo trascinare dagli eventi e dai desideri.
E in quel momento, il mio desiderio più grande era toccare la pelle di Mulder. Il petto, i muscoli addominali, le braccia, la morbida peluria che li ricopriva…
Ma la sua bocca riprese possesso della mia con foga e le sue braccia mi circondarono sdraiandomi sul letto. La danza delle labbra ricominciò, mentre le sue mani passavano leggere lungo il mio corpo, sopra il cardigan.
Intrecciai le dita ai suoi morbidi capelli e lo attirai ancora più vicino al mio viso. I nostri respiri iniziarono a farsi irregolari e affannosi e dalle nostre labbra uscirono sospiri eroticamente dolci.
Presi la sua mano e la condussi maliziosamente sull’allacciatura del mio cardigan, invitandolo a slacciare i bottoncini.
Lui mi guardò negli occhi e, sorridendomi, prese a sbottonarli uno ad uno. Quando arrivò in fondo aprì leggermente i due lembi, ma senza scoprire il mio seno.
Passò le dita intorno al mio ombelico, provocandomi un piacevolissimo solletico.
Vidi i suoi occhi brillare quando si accorse che non indossavo il reggiseno e che sarebbe bastato un gesto per denudare i miei seni.
Mentre lui mi osservava rapito, io finii di sbottonare la sua camicia e la spinsi giù dalle sue spalle.
Lui si sollevò e se la tolse, dopo aver slacciato i polsini, poi si sfilò anche la maglietta nera che portava sotto, rimanendo a petto nudo.
Aspettai impaziente di sentirlo nuovamente a contatto con il mio corpo e, quando si adagiò su di me, gli presi il viso fra le mani, guardandolo intensamente, cercando di trasmettergli con lo sguardo tutte le emozioni che mi si stavano agitando nel corpo e nell’anima in quel momento.
La sua mano, calda e liscia, si insinuò sotto il mio maglioncino, scostando prima un lembo, poi l’altro, cosicché fui completamente esposta al suo guardo. Sorrisi soddisfatta quando lo sentii trattenere il fiato, prima di tornare a guardarmi negli occhi e tuffarsi nell’ennesimo bacio.
Il mio seno era pressato contro il suo petto e la sensazione della sua pelle bollente a contatto con la mia, mi accelerò i battiti e mi fece respirare ancora più affannosamente.
Sentii la sua lingua esplorare ogni angolo della mia bocca, mentre la mano andava a posarsi delicatamente su di un seno. Trattenni il fiato e rovesciai gli occhi all’indietro, mentre il suo pollice disegnava piccoli cerchi attorno al mio capezzolo.
Annaspai, in cerca d’aria quando la sua bocca lasciò la mia per andare a succhiare avidamente entrambi i miei boccioli rosa, che si inturgidirono immediatamente tra le sue labbra piene. Gettai le braccia scompostamente sopra la testa e inarcai il busto, offrendomi completamente a lui.
Mulder si dedicò ai miei seni con anima e corpo, accarezzando, massaggiando, baciando, succhiando delicatamente, per un tempo che mi parve infinito. Quando si sollevò, guardandomi adorante, vidi riflessa nei suoi occhi la mia espressione languida e completamente estasiata. Il petto mi si alzava e abbassava freneticamente, preda di un affanno provocato dalle scariche di piacere e dai gemiti che il tocco di Mulder mi aveva provocato.
Il suo sorriso di risposta trasudava soddisfazione e una punta di orgoglio maschile, ma soprattutto adorazione. Una dedizione che gli avevo visto negli occhi solo durante i casi più scottanti… e durante l’altra nostra notte d’amore.
Si piegò sulla mia bocca e mi passò le braccia sotto la schiena, abbracciandomi stretta.
Risposi al bacio con passione, cercando di trasmettergli il mio ringraziamento per i meravigliosi istanti che mi stava regalando. Le mie mani accarezzarono i muscoli della sua schiena, beandosi della sensazione della sua pelle calda e liscia sotto le mie dita. Le spostai davanti, per accarezzargli il petto e lui intrecciò le sue dita con le mie.
Si separò dalle mie labbra e baciò le mie nocche, una per una, poi prese in bocca l’indice e iniziò a mordicchiarlo, sorridendomi maliziosamente.
Io risi felice.
I nostri occhi si persero in una conversazione muta e profonda, e qualcosa all’improvviso scattò.
Mi ritrovai schiacciata al materasso, mentre Mulder mi stringeva in un abbraccio soffocante e con la mano libera accarezzava ogni angolo nudo della mia pelle surriscaldata e con le labbra tracciava scie bollenti sulla mia bocca, sul viso, sul seno.
Le mie dita si mossero senza pensare e andarono a slacciare il bottone dei suoi pantaloni. Nel farlo sfiorai la sua eccitazione e lo sentii trattenere il fiato.
Spinsi in giù il bordo, invitandolo a levarli. Lui si alzò di scatto, se li tolse in tutta fretta, poi passò a levare i miei pantaloni della tuta, gettandoli per terra.
Mi prese un piede e iniziò a tracciare un percorso di leggeri baci lungo tutta la gamba. Quando arrivò alla coscia, prese l’altro piede e ripeté l’operazione. Arrivato all’altra coscia, mi stupì sfiorandomi con un leggerissimo bacio il sesso, attraverso la stoffa delle mutandine.
Sussultai di sorpresa, mentre una sensazione di languido calore si irradiava dal mio basso ventre lungo tutte le terminazioni nervose del mio corpo.
Mulder proseguì il suo percorso sulla mia pancia, leccandomi maliziosamente l’ombelico, e passando attraverso la spaccatura tra i seni.
Attesi la sua bocca e quando la posò sulla mia, presi a baciarla con foga e passione.
La sua mano scese ad accarezzare la mia intimità, con movimenti circolari che avevano la malizia di insinuarsi sotto l’elastico dell’indumento, ma senza arrivare mai a toccare la mia pelle più sensibile.
Era una lenta e dolcissima tortura che mi mandò completamente in corto circuito il cervello.
Registrai a malapena il fastidioso suono di un clacson suonato insistentemente fuori, sulla strada.
Nel mio piccolo mondo esistevamo solo io, Mulder e le strepitose sensazioni che i nostri corpi si sapevano trasmettere.
Quando cominciai ad annaspare, al limite della sopportazione di quella deliziosa tortura, presi la sua mano, guardandolo dritto negli occhi, e la tolsi da dove stava tramando per farmi impazzire e me la portai su un seno.
Mentre le sue dita ricominciarono a stuzzicarmi sensualmente il capezzolo, io posai la mia mano sulla sua evidente eccitazione.
Ghignai di soddisfazione, per la mia piccola vendetta, quando lo sentii respirare affannosamente, in cerca d’aria, e nelle mie orecchie arrivò l’erotico suono dei suoi gemiti soffocati.
Tolse la mano dal mio petto, accasciandosi in fianco a me e tuffando il viso nell’incavo del mio collo.
Insinuai una mano all’interno dei suoi boxer, percependo il calore emanato dalla sua pelle propagarsi lungo le mie dita.
Presi a massaggiare il suo punto più sensibile, muovendomi lentamente e assaporando il dolce suono dei gemiti e dei sospiri che riversava vicino al mio orecchio.
Lentamente, vidi il suo braccio allungarsi e portarsi vicino al pizzo delle mie mutandine, insinuandovi la mano e raggiungendo il fulcro della mia femminilità.
La stanza si riempì dei sensuali suoni dei nostri sospiri, dei nostri odori che si mescolavano nell’aria e del nostro piacere che si intrecciava insieme e penetrava nei pori della nostra pelle.
Gli ultimi indumenti intimi finirono ben presto da qualche parte nella stanza e ci ritrovammo completamente nudi, stesi di fianco, stretti l’uno all’altra.
Le nostre bocche, nuovamente unite, presero a danzare un ritmo più lento e dolce, pregustando la sensazione più intensa di tutte, attendendo teneramente l’unione dei nostri corpi.
Le nostre anime lo erano già da tanto tempo…
Mulder mi spostò, facendomi poggiare la testa sul cuscino. Con uno sguardo di estrema dolcezza negli occhi, scese a baciare nuovamente i miei seni, con lentezza, con competenza, attardandosi a rendere ogni bocciolo turgido e luccicante di baci.
Non riuscendo a trattenere sussulti eccitati, guardai la sua testa scivolare sempre più in basso, sempre più in basso, fino a che non trattenni il fiato e mi aggrappai alle lenzuola.
La sua bocca, morbida e calda, baciò sapientemente ogni piega eccitata del mio sesso, facendo attraversare il mio corpo da scosse di piacere, provocandomi spasmi incontrollati allo stomaco, mandandomi messaggi di pura estasi dritti nel cervello e facendomi volare in alto. Toccai vette di piacere che non avrei mai osato immaginare, abbandonandomi completamente alle sue umide carezze. La sua lingua tracciò contorni, si spinse in angoli sconosciuti, ma estremamente sensibili, lasciando la sua orma appassionata su di me.
I miei occhi fissavano il soffitto, senza realmente vederlo, troppo occupati a percepire la magia di quell’infinito istante.
Mulder si allungò nuovamente su di me per baciarmi con dolcezza.
Sulla sua lingua percepii il sapore della mia stessa eccitazione e questo mi provocò una scarica di frenesia che feci fatica a contenere.
Allungai una mano verso il suo sesso, provando a restituirgli, in maniera forse un po’ impacciata, i meravigliosi attimi che mi aveva appena regalato.
I suoi sospiri eccitati si mescolarono al mio respiro e sentii il suo corpo essere percorso da una serie di brividi infuocati.
Mulder si staccò dalle mie labbra e mi guardò. Nei suoi occhi nuotavano desiderio, tenerezza, devozione, ed erano tutte sensazioni provocate dal mio tocco, dalla mia frenesia.
Gli sorrisi dolcemente, accarezzandogli una guancia.
Era giunto il momento. Sentivo chiaramente il suo sesso premere contro il mio desiderio.
Gli infilai le dita fra i capelli, sorridendogli beatamente.
Il suo corpo si tese e le sue labbra si posarono dolcemente alle mie.
I nostri corpi si unirono in uno solo, nello stesso momento in cui la sua lingua entrò nella mia bocca. Mi aggrappai forte a lui e strinsi le gambe contro i suoi fianchi, accogliendolo più in profondità.
Un piacere intenso si diffuse velocemente in ogni angolo del mio corpo, portandomi a sussultare e gemere, mentre Mulder iniziava a muoversi dentro di me, lentamente.
La sua lingua disegnava linee immaginarie nella mia bocca, facendomi sentire parte di lui come non mai. Le sue mani tornarono a stringere il mio seno, con ardore, con passione, costringendomi a separarmi dalle sue labbra, per aprire la bocca e far fuoriuscire i gemiti che premevano imperiosi.
Mi adeguai al suo ritmo lento e dolce, incollando lo sguardo ai suoi occhi, che mi guardavano con un intensità tale da provocare le mie lacrime, che riuscii a trattenere a stento.
Sarebbero state lacrime di gioia, ma in quei giorni avevo pianto troppo.
Le lasciai morire tristemente sotto le mie palpebre.
Le sue labbra si aprirono in un sorriso estasiato e il suo naso sfregò teneramente contro il mio, prima di tuffare il viso contro il mio collo. La sua lingua lasciò il suo segno sulla cute sensibile, provocandomi la pelle d’oca e divertiti sussulti eccitati.
Il ritmo dei nostri movimenti si fece più sostenuto, mentre le nostre mani cercavano bramose la pelle nuda.
Accarezzando, stringendo, amando.
Le mie unghie graffiarono le spalle di Mulder, quando un piacere quasi insopportabile scaturì dal mio basso ventre e si irradiò lungo le mie membra, facendomi urlare di desiderio.
Persi la cognizione del tempo, dello spazio e della realtà.
C’eravamo solo io e lui, abbandonati lungo sentieri illuminati di gioia e spensieratezza, in mezzo a campi inondati di sole, in fondo ad oceani paradisiaci, nuotando insieme, mano nella mano.
Mi lasciai completamente travolgere dalla forza del desiderio di Mulder, unendomi a lui nella scalata verso la vetta più alta, verso un mondo sconosciuto e accecante, verso il culmine di quella notte così speciale, così bella, così sognata.
Chiusi gli occhi e lasciai che dal mio essere scaturissero scintille, aggrappandomi forte alle spalle di Mulder.
Lo sentii tendersi e gemere incontrollatamente mentre il piacere travolgeva anche lui.
Spossato e tremante, si accasciò sul mio corpo, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo.
I nostri petti si alzavano e abbassavano velocemente, sconvolti dall’intensità di quell’intimo abbraccio. I nostri respiri erano irregolari, affannati e si mescolavano nell’aria della stanza, già piena dell’eco dei nostri gemiti e sospiri.
Girai il viso e gli detti un bacio sui capelli.
Lui si alzò leggermente e mi rivolse un sorriso dolce e stanco. Il suo volto era illuminato di una felicità profonda, eppure portava ancora i segni della pesante giornata che aveva trascorso… e che non era ancora finita.
Nei suoi occhi leggevo ancora un tormento che era stato scalzato via durante il nostro scambio di affetto, ma che ora stava ritornano a galla, ostinato.
Lo sentii scivolare lentamente fuori dal mio corpo e mi ritrovai a stringerlo più forte, come se temessi che sarebbe svanito da un istante all’altro.
Si sdraiò al mio fianco, cullandomi in quel suo modo così particolare e così rassicurante.
Dopo un po’ si scostò e scese dal letto. Io lo guardai allarmata. Non avrei sopportato di vederlo andar via…
Era vero che io l’altra volta mi ero comportata così, ma…
I suoi occhi mi sorrisero, mentre scostava le coperte.
“Prenderai freddo…” spiegò, invitandomi, con un gesto, a infilarmi sotto.
Sorrisi, sollevata.
Mulder si infilò sotto le coperte con me, abbracciandomi e intrecciando le gambe alle mie. Posò la fronte alla mia e sospirò.
Lo guardai negli occhi.
“Cosa c’è?” gli chiesi in un sussurro, sentendomi un po’ come una mamma che tenta di sollevare il morale al figlio che si è appena sbucciato un ginocchio.
Scosse la testa e chiuse gli occhi.
Attesi pazientemente, senza forzarlo.
Quando li riaprì notai che erano lucidi e stanchi. Tanto stanchi.
“Avevi ragione” mi disse con voce fiacca. “Non posso separarmi da te ora. Non ci riesco…” nella profondità delle sue parole viveva una sofferenza immensa.
Gli accarezzai i capelli e gli stampai un bacio sulle palpebre.
“E questa è una brutta cosa?” chiesi in tono dolce.
Lui scosse di nuovo la testa.
“No… ma… non posso rischiare di perderti… non posso…”. Chiuse di nuovo gli occhi, impedendomi l’accesso alle sue emozioni.
Rimasi in silenzio per un momento.
“Non mi succederà nulla. Starò attenta. E poi ci sarai tu con me” gli accarezzai una spalla, cercando di rassicurarlo, anche se sapevo già che il tentativo era vano.
Quando riaprì gli occhi, mi fisso con uno sguardo strano, risoluto e tenebroso. Incuteva quasi timore.
“Stavo pensando di non andare.. di rinunciare…”.
Mi scostai da lui, sbarrando gli occhi.
Non poteva farlo. Non per me.
No!
“No! Mulder non puoi rinunciare!” iniziai accalorandomi e investendolo con una voce acuta e spaventata.
“E’ la tua vita, la tua ricerca della verità! Potrebbe essere la svolta del tuo lavoro, Mulder! Non puoi rinunciare! Non per me!”. Il mio respiro era agitato. Ero terrorizzata. Non potevo permettergli di rinunciare, non potevo.
“Si che posso” disse risoluto, ma nella sua voce c’era una sofferenza che non riuscivo a sopportare.
Ma sapevo anche che discutere con lui in quel momento non avrebbe portato a nulla. Aveva la testa troppo dura e quando si ficcava nella zucca una cosa fargli cambiare idea era sempre un’impresa titanica.
Lo osservai severamente per qualche altro istante, poi gli sorrisi, spiazzandolo.
“Il solito testone!” e risi, sforzandomi di apparire serena. “Dormici sopra, domattina ne riparliamo”.
Lui aprì la bocca per protestare, ma io gli posai un dito sulle labbra.
“Shh! Ne riparliamo domani” scandii le parole assicurandomi che le capisse.
Lui non mi rispose, ma mi abbracciò, facendomi affondare il viso nel suo petto.
Rimanemmo così, immobili, per molto tempo, persi nei nostri pensieri.
Fui io a spezzare quel silenzio teso.
Alzai la testa e lo fissai. Mulder mi accarezzò i capelli. Nel suo sguardo era tornata la dolcezza di poco prima, anche se non riusciva a sconfiggere del tutto l’angoscia che provava.
“Mulder… lo so che oggi è stata una giornata intensa. Che ti ho dato una notizia inaspettata e che ora tu ti senti in dovere di starmi vicino, ma…”.
Fu lui stavolta ad interrompermi, aggrottando le sopracciglia.
“In dovere?” chiese perplesso.
Respirai profondamente, abbassando gli occhi.
“Non voglio che tu ti senta obbligato ad occuparti di me… di noi” e la mia mano si posò inconsciamente sul ventre. “Non avevi chiesto di avere un figlio e… insomma, ero io quella che lo bramava e ora, miracolosamente, il mio desiderio è stato esaudito, ma…”.
Lo guardai negli occhi. La sua espressione era illeggibile.
“Non voglio che tu ti senta in obbligo di occuparti di lui”.
Le rughe sulla sua fronte si distesero e le sue labbra sorrisero. Scosse leggermente la testa, in un gesto di rassegnazione.
Mi prese il volto tra le mani e mi baciò, dolcemente, indugiando sulla mie labbra, accarezzandomi teneramente.
Quando si staccò sorrise di nuovo.
“Sciocca!” e rise tranquillamente. “Ne riparliamo domani mattina” disse, facendomi il verso.
“E’ meglio che tu ci dorma sopra, magari ti schiarirai le idee” e picchiettò col dito contro la mia fronte.
Non compresi fino in fondo le sue parole e il suo repentino sbalzo d’umore, ma la sua bocca, che tornò ad occuparsi delle mie labbra, e le sue mani, che ripresero a passare languide lungo il mio corpo, cancellarono ogni pensiero coerente e ben presto mi ritrovai nuovamente stretta tra le sue braccia, impaziente di ricevere quel dono che mi aveva trasportata così in alto poco prima.
Mi persi nelle sue carezze, nei suoi baci e nelle nostre vibrazioni eccitate, pensando che, almeno per il momento, i problemi e le decisioni potevano aspettare.
Eravamo, di nuovo, solamente io e lui.
E il nostro miracolo che cresceva dentro di me.